“Bussò alla porta della pietra
sono io fammi entrare...”
Così comincia ‘conversazione con una pietra’, una poesia in cui Wisława Szymborska mostra i lati significativi della sua scrittura: il paesaggio, senza soluzioni di continuità, dal sé più prosaico alla metafisica. Con gli stessi due versi si aprono sei delle undici stanze di cui la poesia è composta: una lunga perorazione da parte della poetessa alla pietra affinché questa disserri il segreto che la abita, spalancando il suo dentro, il palazzo che nasconde, le sue grandi sale vuote. La pietra però per cinque volte si oppone con un secco rifiuto:
“Vattene” dice la pietra
“Sono ermeticamente chiusa
anche fatte a pezzi
saremmo ermeticamente chiuse.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno”
Szymborska cerca di convincerla prima con l’argomento della curiosità, poi commuovendola, ricordandole la propria mortalità. Infine, più o meno, a metà componimento, prova con un’altra tattica:
“Non cerco in te un rifugio per l’eternitá.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.
Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò e uscirò a mani vuote.
E come prova d’esserci davvero stata
porterò solo parole a cui nessuno presterà fede.”
La pietra non cede. È di pietra del resto, fa presente. E alla fine all’ennesima richiesta, rivela, semplicemente: “Non ho porta”.